Atlante occidentale

Atlante occidentale è il secondo romanzo di Daniele Del Giudice, pubblicato nel 1985 da Einaudi. Il progetto prende corpo nel maggio del 1984, durante una visita dell’autore al CERN di Ginevra. Di questa esperienza Del Giudice dà conto nel Taccuino di Ginevra, un diario di viaggio dalla già spiccata impronta narrativa. Come si vede dal Taccuino, ora leggibile in appendice all’edizione del romanzo pubblicata nel 2019 a cura di Enzo Rammairone, la visita al CERN si rivela decisiva: nel più grande laboratorio di fisica delle particelle del mondo, e sulla scorta del cambiamento epocale che dalla meccanica classica ha condotto alla meccanicaquantistica, Del Giudice può approfondire la propria ricerca di un nuovo modo di rappresentare gli oggetti e la realtà attraverso la scrittura.

La narrazione di Atlante occidentale, ambientata a Ginevra e nei dintorni, ha inizio con una mancata collisione in volo fra due appassionati aviatori, Pietro Brahe e Ira Epstein, appartenenti per professione a due mondi diversi, quello del fisico e quello dello scrittore, e si sviluppa alternando dibattiti, scambi di opinioni e influenze reciproche. Epstein è uno scrittore che non riesce più a tradurre narrativamente in linguaggio la realtà che osserva tuttavia con precisione estrema. Brahe è un fisico che cerca di portare a termine un esperimento di fisica delle particelle, traducendo gli eventi subatomici in forme osservabili su un monitor e dimostrando le teorie matematicamente formulate della meccanica quantistica. Mentre Epstein, che vorrebbe capire come «vedere oltre la forma», è affascinato dagli esperimenti di Brahe, soprattutto dal nuovo tipo di percezione legato alla ricerca sulle particelle, Brahe decide di leggere i libri dello scrittore, poiché sente che la scrittura, evocatrice di memoria e di emozioni, potrebbe aiutarlo ad assumere un nuovo e diverso punto di vista sul proprio esperimento. 

Epstein, nell’indagare i comportamenti e i sentimenti degli uomini nell’era della scienza, è un «visionario di ciò che esiste», mentre Brahe, si legge, assomiglia a «un metafisico colla macchina fotografica, che vuole un’istantanea di quello che pensa […] ci sia». I loro mondi, così come i loro oggetti e linguaggi, se dapprima sembrano distanti o perfino antinomici, nel corso della narrazione si mostrano sempre più simili, tanto da suggerire all’uno e all’altro, reciprocamente, spunti di riflessione per un’epistemologia finalmente adeguata ai nuovi oggetti e ai nuovi sentimenti epocali. Epstein e Brahe si avvicinano senza mai toccarsi, imparando l’uno dal lavoro dell’altro, ma al termine del romanzo si produrrà tra i due protagonisti, come fra due particelle, la “collisione” che nell’incipit era stata solo sfiorata. Visione e racconto saranno infine raggiunti.

Nella scena finale, in particolare, Epstein, osservando un plastico della città di Ginevra, riesce improvvisamente a far convivere l’astrattezza dei modelli delle cose con la concretezza delle persone, con la loro individualità come componente necessaria di un rapporto etico con il mondo. Rivedendo tutta la storia del proprio incontro con Brahe, anche nei particolari sconosciuti ai lettori, Epstein le restituisce un valore etico, ma, «nell’istante stesso in cui Brahe gli si para davanti col fiatone, smette di vederlo». Svanita la visione, lo scrittore non può che accogliere una comprensione che è anche un sentimento, rinunciando all’idea di una mimesi della realtà mediante la scrittura:

– E adesso?
– Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.
– E questa?
– Questa è finita.
– Finita finita?
– Finita finita.
– La scriverà qualcuno?
– Non so, penso di no. L’importante non era scriverla. L’importante era provarne un sentimento.