Orizzonte mobile

Orizzonte mobile è l’ultima opera narrativa di Daniele Del Giudice, pubblicata nel 2009 da Einaudi. Il testo nasce da alcuni articoli che Del Giudice scrisse per il «Corriere della Sera» sulla scorta di un viaggio in Sud America e in Antartide compiuto nel 1990 (gli articoli furono pubblicati con il titolo Taccuino australe). Da questi primi materiali narrativi prese corpo in seguito il racconto di una «iperspedizione», come la chiama l’autore stesso nella nota che chiude il libro, in cui il racconto di viaggio autobiografico dialoga con quelli delle spedizioni antartiche intraprese alla fine dell’Ottocento dall’italiano Giacomo Bove e dal belga Adrien de Gerlache de Gomery. Del Giudice riscrive alcuni resoconti dei loro viaggi e aggiunge ancora un proprio immaginario ritorno nell’estremo Sud, creando una compagine testuale stratificata che oscilla fra il romanzo, il reportage e il diario.

Da una spedizione all’altra, l’estremo Sud del continente americano e l’Antartide si delineano come luoghi dove la presenza umana incontra una resistenza estrema. La profondità temporale del racconto stratificato consente di rilevare le variazioni di questa dialettica, dalla difficoltà ai limiti delle possibilità umane delle spedizioni dei secoli scorsi, attraverso la rievocazione delle vite delle popolazioni autoctone e dei loro contatti con i primi coloni occidentali, fino alla maggiore facilità garantita nel presente dal cambiamento tecnologico e dal progresso economico. Ma ancora nel presente l’Antartide, questo «più profondo e radicale dei Sud», di cui l’autore raggiunge anche la regione dei ghiacci eterni e delle basi scientifiche, si mostra come luogo indifferente all’uomo e che dell’uomo mostra la precarietà. Il paesaggio antartico tende quindi a rovesciarsi in negazione del paesaggio, se la presenza umana è costitutiva della sua idea, o semplicemente a interrogare l’uomo sui limiti e sulle condizioni della sua presenza.

La narrazione di Del Giudice, che si inserisce in una tradizione che comprende autori quali Esteban Lucas Bridges e Bruce Chatwin, è insomma un racconto di estremi, ma condotto quasi sottotono, a segnare la distanza che separa i primavoltisti – per usare una parola dello Stadio di Wimbledon – dei tempi eroici dal viaggiatore del presente, e con una misura stilistica che sembra restituire la consapevolezza della misura dell’uomo di fronte alla natura.